Ruggerio e la nascita della Missione
Nel 1998, quando ancora lo spazio che ospitava la mia Missione era un antico carcere minorile, accolsi Ruggerio, un ragazzo di 17 anni con alle spalle un crimine: aver ucciso una persona. Il suo arrivo era dovuto a un errore del sistema giudiziario che, nonostante il carcere fosse stato ormai sostituito dalla Missione, continuava a inviare da noi ragazzi che dovevano scontare una pena.
Erano i primi mesi della nostra opera e pochi ragazzi abitavano al “San Michele”. Ruggerio aveva una peculiarità: durante i pasti si isolava sempre in un angolo del refettorio. Alle mie insistenze per unirsi a noi, rispondeva con fermezza che non si sarebbe mai seduto al nostro tavolo.
Ruggerio era analfabeta e rifiutava di frequentare la scuola. Era impensabile inserirlo in una classe di bambini di 6 anni. Così, ogni sera, nel mio piccolo ufficio, gli dedicavo del tempo per aiutarlo con i compiti, seduti ai lati opposti della scrivania.
Un giorno, commosso da questa dedizione, Ruggerio alzò lo sguardo e mi confessò: “Se avessi avuto un padre come te, non avrei mai fatto ciò che ho fatto”. In quel preciso istante compresi che si era aperto a me e che potevo indagare su questioni più delicate.
Con la curiosità che mi attanagliava, gli chiesi perché evitasse di mangiare con noi. Mi raccontò che all’età di 5 anni sua madre lo costringeva a pulire le stalle per contribuire al magro bilancio familiare. Per ogni stalla pulita riceveva 1 Real, l’equivalente di 0,20 centesimi di euro odierni. Per raggiungere questo lavoro, si svegliava alle 5 del mattino e affrontava una camminata di 2-3 chilometri. Verso le 11, all’ora di pranzo, Ruggerio apriva la borsetta dove la madre gli metteva qualcosa da mangiare, solo per scoprire che era sempre vuota. Per evitare l’umiliazione di mostrare agli altri il suo piatto vuoto, si sedeva nell’angolo, fingendo di mangiare. Da quel giorno, non permise mai a nessuno di guardare il suo piatto, un’abitudine che si portò dietro fino all’età adulta. Il dolore di quell’umiliazione lo perseguitava, impedendogli di condividere il pasto con gli altri. Lo invitai a sedersi al nostro tavolo, rassicurandolo che non avrei guardato il suo piatto, ma che desideravo la sua compagnia.
Il giorno dopo, ancora digiuno, lo trovai ad aspettarmi fuori dal refettorio. Alla mia domanda sul perché fosse lì, mi rispose che mi aspettava per andare a mangiare insieme.
Nel tempo, tra noi nacque un’amicizia profonda. Un giorno, durante una passeggiata insieme, mi chiese se volessi vedere la stalla dove lavorava. Accettai con entusiasmo e, seguendo un sentiero di terra, raggiungemmo un portoncino di ferro in un quartiere molto povero.
Aprendo il portoncino, colto da un’ispirazione, esclamai: “Qui costruiremo la nuova Missione!”. Poco dopo, arrivò in moto il proprietario del terreno, dicendoci che il terreno era in vendita. Iniziò così una trattativa durata circa un anno, al termine della quale acquistammo il terreno e costruimmo l’attuale Missione San Michele Arcangelo.
Il giorno della firma dal notaio, concordando le rate, scoprii un fatto incredibile. Due anni prima di quell’evento, avevo fondato la Missione “San Michele Arcangelo”. In Brasile, non è comune che un terreno abbia un nome, a meno che non sia molto antico. Controllando le carte con l’avvocato, arrivammo a una pagina dove, tra stupore e commozione, lessi il nome del terreno: “questa terra è denominata ‘Terra di San Michele'”.
Dopo il completamento della Missione San Michele Arcangelo, trovammo per Ruggerio un lavoro in una fattoria lontana, per proteggerlo dalle minacce della famiglia della vittima da lui uccisa. Tuttavia, una notte, qualcuno entrò in casa sua e Ruggerio venne purtroppo ucciso.
Il giorno prima era venuto a trovarmi alla Missione e, seduto su un tronco di legno della falegnameria, mi disse: “Ho tanta nostalgia di te”. Parlammo un po’ e ci salutammo. Quella stessa notte venne ucciso.